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La morsa del Pitone

di Dario Gallitelli

Foto di Messina Sportiva

Pubblicato il 14/08/2023

Il pitone si muove suadente come pochi altri animali. Striscia, quasi ammalia la preda e poi stritola sino a non sentirne più il battito. Ora trattasi di cervo, antilope, di Vincenzo Migliaccio oppure di Gennaro Scarlato, solo per citare alcune vittime illustri, non fa differenza, il risultato non cambia. Buio, boato e poi corsa a braccia larghe sotto la curva, smaniosa di coccolarsi il killer. Il pitone non è solo un soprannome, è una filosofia di vita, quella che ha reso unico nel suo genere Raffaele Biancolino.

“Sono “Il Pitone” ancora oggi che non gioco più, e devo essere onesto, mi piace sempre alla stessa maniera. Tutto nasce per scherzo, mi piacciono gli animali esotici, un giorno torno a casa con un pitone e da quel momento tutti iniziano a chiamarmi così, anche grazie al giornalista Remo D’Acierno. Nel tempo poi la cosa è andata avanti anche per le mie caratteristiche, alla mia forza fisica ed ovviamente ai tanti gol che ho segnato. Dove nasce Biancolino? A Napoli, ma calcisticamente il viaggio parte dalla primavera dell’Atalanta. Ecco, sono stato vicino alla Serie A, non ho mai esordito ed un puntino nero su una carriera piena di soddisfazioni, non tanto per me ma perché mi sarebbe piaciuto regalare quella gioia a mio padre che non c’è più, al quale avevo promesso la massima serie. Sono un tipo a cui non piace trovare scuse, se non ho mai calcato i campi della A un 70 – 80% di responsabilità me le prendo io, voglio però sottolineare come quell’anno a Bergamo, la coppia d’attacco della prima squadre fosse Vieri – Inzaghi. Con due come quelli là, come fa Biancolino a vedere il campo? Non recrimino, non ho rimpianti, e anzi, ve lo dico adesso – col sorriso sulle labbra -, a 46 anni, io e Felice Evacuo, non abbiamo nulla da invidiare a nessuna coppia d’attacco”.

“Il legame più forte è sicuramente quello con Avellino. Io amo questa piazza, amo questi colori, ce l’ho tatuati addosso e l’ho dimostrato tante volte nella mia vita. Ad Avellino sono legati i ricordi più belli della mia carriera, penso ai due gol contro il Napoli ad esempio. Il primo, in campionato, 13 febbraio 2005, una data che non potrò mai scordare. La sera prima nella hall dell’albergo mi fermo con Rastelli e gli dico «Secondo te domani segni?». Lui mi guarda e mi dice: «Io si, e tu?», sorrido e gli rispondo: «Pure io, sicuro». Avevamo ragione entrambi. Finale due a zero, lui di testa, io gran controllo, lascio sul posto Scarlato e metto di fino sul palo lungo. Il Partenio era una bolgia. Il secondo, decisivo nella finale Play Off. Provavamo spesso un blocco con Puleo e D’Andrea, insisto cento volte, gli dico di fare sempre lo stesso movimento perché io so dove metterà la palla Millesi. Trenottesimo, calcio d’angolo, Millesi disegna la parabola ed io sono là, pronto come un falco, anzi come un pitone, zampata, gol ma non esulto. L’Avellino però, mi ha fatto anche molto male, ad esempio quando scelsi di andare a Salerno, lo feci quasi per ripicca, come quando dopo essere stato lasciato, punti la migliore amica della tua ragazza. Quell’anno pregai la dirigenza biancoverde di tenermi, li ho implorati ma da parte loro ci fu un silenzio assordante. Scelsi la Salernitana per un senso di rivalsa ma Avellino resta il mio amore calcistico. Ci sono tornato, vinsi un campionato di C e lo riportai dove lo avevo lasciato. Lo dovevo alla piazza, ai tifosi, l’ho fatto e ne sono orgoglioso”.

“Con tutti i miei allenatori ho avuto buoni rapporti. All’inizio magari mi maltrattavano, per spronarmi, per provare a farmi allenare in maniera diversa, ma poi le cose filavano lisce. Sarebbe stato da pazzi rinunciare ad uno che ti fa venti gol, no? Con Zeman ebbi un piccolo screzio ad inizio stagione: partita Avellino – Bari, io rientro in gruppo dopo un infortunio, Giovannino Stroppa è ancora a parte. Arrivano le convocazioni, Stroppa convocato, io no. Ero ovviamente irritato ma poi per fortuna ci siamo chiariti. Sarri? Un maestro. Quell’anno ero il capitano, lui però aveva una fissa, tutti i calciatori dovevano avere le scarpe nere. Io ce le avevo bianche con il baffo verde che richiamava la mia squadra ma anche i miei compagni mi spalleggiavano. È stata una lotta dura, ma alla fine l’ho spuntata io. Scarpe colorate per tutti”.

L’ultimo pensiero vola triste ad un compagno di squadra scomparso, un amico del Pitone, al quale quando chiediamo chi sia il portiere più forte che abbia mai incontrato risponde amaro: “Ho avuto la fortuna di giocarci assieme, Domenico Cecere, un fratello, un grande uomo ancor prima che un portiere straordinario. La mia è stata una carriera bella da vivere, che mi ha regalato gioie, soddisfazioni, gloria e affetto. Questo è quello che più mi gratifica quando mi guardo indietro. So di essere stato un fortunato ma non c’è un segreto. Non si può spiegare la fame di chi vive per il gol”.

Non c’è bisogno di spiegarla, per capire, basta solo aver incrociato per una volta lo sguardo assassino del Pitone.

di Dario Gallitelli

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