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Esclusiva CT, Paci: “Allenare vuol dire prendersi cura dei ragazzi. Ranieri? Ironico, raccontava barzellette”

25/04/2024

di Mario Lorenzo Passiatore

Foto: Dal web

Abbiamo sentito per Calcio Totale l’ex difensore del Parma che ha ripercorso le tappe salienti della sua carriera tra storie e aneddoti passati. Le fatiche con Zeman, l'inconfondibile ironia di Ranieri e l’esperienza alla Juve. “A volte si hanno delle convinzioni sbagliate su chi ha talento: a Torino ho scoperto la mentalità e la capacità di lavorare al buio”.

Una vita in difesa con dodici maglie diverse nel corso della carriera. A Parma la sua esperienza più lunga agli ordini di Pioli e Ranieri (tra gli altri), ad Ascoli ha lasciato un pezzo di cuore e poi la Serie A con il Lecce di Zeman. Massimo Paci si è ritirato nel 2015 e ha iniziato la nuova vita da allenatore in Eccellenza con la Civitanovese, subito dopo la D con il Montegiorgio e il Forlì.

Nel 2020 l’approdo in C con il Teramo e l’anno seguente l’esordio in B a Pordenone. Pro Vercelli e Pro Sesto le sue ultime avventure in panchina e adesso non vede l’ora di tornare a dirigere il prossimo allenamento. In attesa della chiamata giusta al momento opportuno. Lo abbiamo sentito per Calcio Totale, due passi nel suo trascorso da calciatore e uno verso il futuro.

Mister, che vuol dire fare l’allenatore? Come è cambiata la tua vita, anche in termini di stress ed energie nervose.
“Vuol dire avere la capacità di tirare il massimo dai giocatori che gestisci. E non parlo solo il campo o di tattica, dentro c’è una componente più importante che è quella relazionale: costruire un rapporto di fiducia con i giocatori. La visione che hai da calciatore, ti puoi aiutare, ma devi capire che serve altro: una prospettiva più aperta per comprendere le necessità del gruppo. Fare l’allenatore vuol dire soprattutto prendersi cura dei tuoi ragazzi. La pressione c’è in qualsiasi categoria, l’inferno ti porta ad avere paure e convinzioni limitanti, è una componente che scopri quando conosci le dinamiche della panchina. Il calcio ti porta a vedere le cose in maniera ossessiva perché sono tanti gli aspetti da curare. Quando dico non dormo la notte, è per questo motivo. Il sogno è quello di arrivare in Serie A, si sa che l’allenatore viaggia solo sui risultati. I progetti diventano tali quando ci sono i risultati”.

Gli inizi della tua carriera da calciatore e quel passaggio alla Juve nella stagione 1998-1999. Cosa ti ha insegnato?
“Mi sono portato dietro l’enorme umiltà dei grandi campioni come Montero, Ferrara, Zidane e Del Piero. Quella fase della vita ha forgiato il mio carattere, ho toccato con mano la voglia di prepararsi e allenarsi come dei matti. A volte si hanno delle convinzioni sbagliate su chi ha talento: ho scoperto la mentalità e la capacità di lavorare al buio. Quelle cose che nessuno vede durante la settimana e che poi fanno la differenza la domenica”.

C’è una piazza o una città che ti è entrata nel cuore?
“Ti dico Ascoli e Parma. Di Ascoli, il gol con la Roma resta l’immagine simbolo. Di Parma, sicuramente l’arrivo. Sì l’approdo a Parma, venivo dalla gavetta, dalla Serie C. E’ come realizzare un sogno, quando arrivi in una piazza storica e gloriosa ti senti orgoglioso di farne parte”.

A Parma hai conosciuto Stefano Pioli e Claudio Ranieri. Ci dici due qualità o un aneddoto che racconta bene i due personaggi?
“Parto da mister Ranieri. Dopo una sconfitta in Coppa Uefa in Portogallo per 1-0, entrò nello spogliatoio e ci raccontò una barzelletta tra lo stupore di tutti. Aveva questi colpi e la ripropose quando uscimmo dalla zona retrocessione. Da penultimi a quintultimi in pochi mesi. E lì raccontò un’altra barzelletta, quella del cane di Acerra. La storia di un cane bastardino, brutto, in mezzo ai cani di razza che perdevano l’osso dalla bocca quando parlavano. Il cane di Acerra invece teneva a denti stretti l’osso. Si ricollegò al nostro percorso salvezza e ci disse che non dovevamo mollare l’osso fino alla fine. Mentre mister Pioli era una persona più rigida e abbottonata. Molto serio e preparato, voleva che la squadra giocasse sempre in un certo modo”.

Hai avuto Zeman a Lecce, che vuol dire lavorare con il boemo?
“Uno stress fisico enorme, i carichi di lavoro sono veramente estenuanti. La cosa che più odiavo era lavorare sempre sulle lunghe distanze. La domenica stavi bene però alla fine della stagione arrivavi logorato dalla mole di lavoro che si faceva durante la stagione. Al secondo anno eri già cotto, perché accumulavi lo stress emotivo a quello fisico.”

I giovani oggi: Paci ragazzo negli anni ’90 e Paci ragazzo nel 2024, cosa cambieresti a distanza di 30 anni?
“Il Paci giovane doveva farsi andare bene tutto. Il Paci di adesso avrebbe avuto modo di lamentarsi. Ai miei tempi non era concesso parlare, bisognava stare alle indicazioni della società e dell’allenatore. Oggi i ragazzi possono dire la loro, il calciatore può esprimere la sua idea facilmente attraverso i social. Adesso si fa fatica a tenere alta la concentrazione. Sono cambiati i tempi, è anche difficile fare dei paragoni. Loro hanno fame, ma lo manifestano in maniera diversa, devono essere messi nelle condizioni di dimostrarlo, prima lo dovevi fare comunque. Sta a noi allenatori tirare il massimo e metterli nelle condizioni giuste. Non solo tatticamente, ma farli stare bene, altrimenti si chiudono e fanno fatica a trovare soluzioni”.

di Mario Lorenzo Passiatore

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