Dagli
anni ’80 fino al termine degli anni ’90 con un passaggio in Serie A per un paio
di stagioni, alla soglia dei trenta. Luca Brunetti ha fatto della cattiveria
agonistica il suo marchio di fabbrica, ma giura: “Mai entrato per far male”.
Persino Bobo Vieri e Pippo Inzaghi parlavano di lui nel corso di una diretta
Instagram, come uno dei difensori più difficili da affrontare in cadetteria. La
vecchia marcatura a uomo, quella che ti toglieva il fiato, ma al contempo non
ti faceva sentire mai solo. Trucchi di un altro calcio, di un altro modo di
difendere.
Sampdoria,
Perugia, Lazio, Taranto, Brescia, Lucchese, giusto per citare le tappe salienti
di una vita vissuta in marcatura. Eppure, in riva allo Jonio, dove è stato
anche capitano, si tolse una soddisfazione enorme: fare gol da 75 metri. Durante
la gara, Pescara -Taranto, (stagione 1991-1992) segnò una rete con un tiro da
distanza siderale.
“A fine partita
ho indossato i panni di pinocchio, dissi al giornalista che avevo cercato il
gol. In realtà era una palla contesa tra me e Bivi e sono andato per anticiparlo,
appena è venuto incontro, sono entrato per il contrasto ed è partito il missile
terra-aria. Prese una traiettoria strana, il portiere era fuori dai pali ed
ecco il capolavoro (ride ndr). A Taranto avrei finito volentieri la carriera.
Il pubblico era uno spettacolo, giocare di fronte a 20mila persone è sempre
bello. La gente ancora mi scrive, è stato un doppio amore”.
Proprio
alla città dei due mari, Brunetti è fortemente legato e ha raccontato uno degli
aneddoti più significativi della sua carriera. “A Taranto, il secondo anno di Nicoletti le cose non andavano bene e la
società voleva esonerarlo. Chiamarono Burgnich che era già atterrato
all’aeroporto di Brindisi. Noi senatori ci siamo opposti e abbiamo detto al
presidente Carelli: ‘Per noi resta Nicoletti’. Il mister stava vivendo un
brutto periodo familiare. La moglie non stava bene, abbiamo fatto valere
l’aspetto umano. Ed è una cosa di cui ne vado sempre fiero”.
La
Serie A, il confronto con i grandi campioni e i duelli: quelli rudi, quelli
veri. “Sono arrivato in A a 29 anni. Li
ho marcati tutti: Gullit, Careca, Vialli, Mancini. Ho sofferto in B Casagrande
dell’Ascoli perché era il classico giocatore che ti portava in giro per il
campo. Vieri ha sempre detto che si è fatto le ossa in B. Da lì passavano tutti
prima: Del Piero, Vieri, Inzaghi. Era un po’ una palestra di vita. Ti facevano dannare perché avevano qualcosa
in più degli altri. Si vede subito quando un giovane è bravo. E poi in A ricordo il primo anno a Brescia: Skuhravy del Genoa e Caniggia della Roma sono stati gli unici che mi segnarono.
Prima marcavamo a uomo e diventava una questione personale con l’attaccante. Ho
avuto la fortuna di vincere i campionati con Brescia, Lazio, Taranto e sono
andato molto vicino con il Perugia. Sono sempre stato uno generoso e quindi mi
adattavo alle varie situazioni”.
I valori della famiglia e il consiglio ai
giovani calciatori: tenere sempre i piedi per terra e non sperperare il denaro.
“Io vengo da una famiglia normale, mio
papà faceva il postino. Per guadagnare i soldi la gente fa fatica, ho sempre
risparmiato. Ho cercato di metterli da parte per un domani migliore. Ai tempi avevo
la mia vecchia Polo e gli altri col Mercedes. Spesso si scherzava: ‘prendi una
macchina nuova, puoi prendere altro’. E’ sempre stata la mia mentalità quella
di volare basso. Oggi ci sono tanti colleghi che sono in difficoltà perché non
hanno gestito i momenti d’oro. Con il calcio puoi guadagnare tanti soldi, ma
poi finisce e hai una vita davanti. A 35 anni sei giovane, non vai in pensione,
devi sapere cosa fare, se sei stato oculato puoi vivere alla grande. Bisogna
usare sempre la testa, così sei anche più vicino ai tifosi, capisci le esigenze,
i sacrifici quando investono i loro risparmi per fare l’abbonamento. Ai giovani
calciatori dico: ‘comprate gli
appartamenti non le fuoriserie, il calcio è una scia che finisce. Siate
intelligenti.’”
L’evoluzione
del calcio, le nuove regole, la fase difensiva e i calendari asfissianti. Uno
sport che dagli anni ’80 ad oggi ha vissuto più fasi. “Sono cambiate tante cose negli anni. E’ cambiata la metodologia degli allenamenti. Noi andavamo più piano, prima si andava a una marcia in meno. I dribbling
di Donadoni o Conti, erano cose che riuscivi ad apprezzare di più perché avevano
maggiore possibilità di mettersi in mostra. Oggi vanno tutti a velocità doppia,
certe giocate si sono un po’ perse anche in virtù dei ritmi e della nuova
fisicità. Si sono evoluti allenatore e staff, ai nostri tempi era diverso, non
avevamo tutti gli strumenti di adesso. Oggi un allenatore ha sei o sette
collaboratori che lavorano in sintonia con lui”.
Il
compagno dall’enorme talento che in allenamento incantava e la domenica faceva
fatica a imporsi. “Alla Lazio Maurizio Schillaci era fortissimo, durante la
settimana faceva cose incredibili. Anche Fascetti ne parlava benissimo,
però nel calcio si devono incastrare tante cose. La coppia più difficile da
gestire? Agostini - Hubner. A Cesena si capivano con uno sguardo. Uno veloce,
agile e furbo. L’altro una forza della natura, fumava un pacchetto di sigarette
al giorno ma non lo prendevi”.
Il
ruolo del procuratore oggi rispetto al recente passato e le prospettive della
nostra nazionale. “Ci siamo dimenticati
di tutelare i ragazzi, il procuratore deve conoscere tutto del suo assistito e
consigliarlo al meglio. Abbiamo tanti giovani interessanti, ma hanno bisogno di
minutaggio nei club per arrivare pronti in nazionale”.
di
Mario Lorenzo Passiatore