Calcio Totale Racconta
Il viaggio di Guardiola al Barça: ore di analisi, video motivazionali e notti insonni
04/01/2022
di Mario Lorenzo Passiatore
La promozione in prima squadra, i consigli di Cruyff, l’esperienza con Tito Vilanova, le guerre psicologiche con Mou e i quattordici trofei in quattro stagioni. La rivoluzione concettuale di Pep Guardiola, uno che aveva addosso i valori del club
Programmare, ove possibile prevedere tutto, o quasi. La storia di Pep Guardiola in Catalogna passa dalla cura maniacale del dettaglio, lo studio dell’avversario, la video analisi esasperata e tanta perseveranza nel trasferire il suo credo al gruppo. Il timore di deludere sé stesso, la sua gente e la sensazione di non essere bravo abbastanza. In pochi incisi i tormenti di Pep Guardiola.
“Riesco a pensare alla più straordinaria delle soluzioni per un problema e poi accade a volte che i giocatori se ne escano con qualcosa di migliore durante la partita, qualcosa a cui io non avevo pensato. Per me quella è una piccola sconfitta personale, perché avrei dovuto trovare questa soluzione prima di loro”.
Nato e cresciuto nella Masia, in quattro anni da allenatore con il Barcellona ha conquistato 14 trofei, vincendo e rivincendo praticamente tutto. Determinanti, nel suo processo di maturazione, le influenze di Lillo, Bielsa, Van Gaal e Cruyff. Dopo una sola stagione con la squadra B dei blaugrana si ritrovò al timone della prima squadra.
Fu un testa a testa serrato: Mourinho o Guardiola, una panchina per due nel 2008. Il primo aveva dalla sua il curriculum, di contro l’eccessiva esposizione mediatica che non entusiasmava i vertici catalani. Il secondo, conosceva l’ambiente come le sue tasche e godeva della stima di uno dei consiglieri del club: Johan Cruyff, non proprio l’ultimo della stirpe.
Mou, a distanza di giorni, spifferò alla stampa stralci di colloquio con i dirigenti del Barça, la cosa non piacque a nessuno, tanto meno in Catalogna. Non c’erano dubbi riguardo la sua professionalità, il portoghese era già passato da lì in qualità di assistente di Bobby Robson, quanto sulla compatibilità con l’ambiente. Non fu un plebiscito, ma la spuntò Pep. Aveva addosso i valori del club e la fiducia di un gruppo di consiglieri fortemente integralisti.
“Allacciatevi la cinture e godetevi il viaggio”
Nell’intermezzo della prima conferenza ufficiale, lanciò un messaggio subliminale, quasi una profezia di quello che sarebbe stato il cammino per quattro lunghi anni: tutti a bordo, si cambia rotta. Subito due tagli: i brasiliani Deco e Ronaldinho.
Quest’ultimo, nella precedente stagione con Frank Rijkaard beccato più volte mentre dormiva sul lettino dell’infermeria. Aveva scambiato il dì con la notte, i balli di gruppo non erano più un modo per celebrare un gol ma uno stile di vita. E allora, largo a Messi e promozione per due canterani dalla terza serie: Sergio Busquets e Pedrito. Dall’idea di gioco alla pratica, il campo vero banco di prova di ogni teoria.
“Maggiore velocità nella circolazione della palla, creazione degli spazi tramite il movimento dei giocatori e la riconquista del pallone entro cinque secondi dal momento in cui lo si è perso. Se non succede, la fase difensiva inizia e i giocatori devono velocemente tornare in difesa. Meglio attacchiamo, meglio difendiamo”.
Alla sagacia tattica abbinava uno spiccato senso emotivo. Nella finale di Roma del 2009 contro il Manchester United, toccò le corde della commozione. Pochi minuti prima dell’ingresso in campo, proiettò, a luci spente, un video nello spogliatoio sulle note del gladiatore.
Un mix tra la scena del film e il percorso dei catalani in Europa. Nell’ultima scena, la conclusione vincente di Iniesta che ammutolì lo Stamford Bridge in semifinale e l’acuto di Bocelli: “Vincerò”. A seguire il silenzio e le lacrime di Gabi Milito. Per la cronaca finì 2 a 0, le firme di Eto’o e Messi. Triplete servito.
Ironia della sorte il replay andò in scena nel 2011. A Wembley la finale fu ancora Barça – United. Prima della gara nessun video strappalacrime, solo brevi filmati sulla tattica e poi un discorso motivazionale.
“So che usciremo campioni questa sera, su questo non ho nessunissimo dubbio. Ragazzi, vi ho detto che mi avreste portato fino in finale e che se lo aveste fatto, io vi avrei fatto vincere la coppa. Se facciamo le cose che siamo in grado di fare, allora saremo una squadra superiore a loro. Abbiamo la superiorità numerica nelle aree centrali. Qui è dove vinceremo la partita, secondo me. L’ho visto, l’ho analizzato e so che qui è dove vinceremo la coppa. Ricordate i calci piazzati che abbiamo provato in settimana, non li abbiamo usati nelle ultime tre gare per tenerli segreti allo United, in modo da poterli sorprendere”.
La vera novità fu Abidal nell’undici iniziale. Solo una manciata di mesi prima aveva sconfitto il tumore al fegato. Arrivò un altro trionfo: Pedro, Messi, Villa e Rooney per i Red Devils. Il Barça si impose per 3 a 1, Abidal sollevò la coppa per gentil concessione di Charly Puyol, che si scucì la fascia, quella era la notte di Eric.
Nulla al caso
Dietro ogni successo tante ore di analisi e di video in ufficio. A confrontarsi continuamente con Tito Vilanova, il braccio destro, mente tattica e analitica dei match. Due personaggi perfettamente complementari, pronti ad interrogarsi vicendevolmente, mettendo a nudo le loro perplessità su questo o quell’altro movimento.
“Di solito succede cosi – spiega Pep. Io dico qualcosa a Tito, se rimane zitto so che devo convincerlo. Se la sua faccia non fa una piega, è perché probabilmente ho sbagliato tutto”.
Fu un duro colpo per Pep quando scoprì che il suo collega avrebbe dovuto operarsi per un tumore alla ghiandola parotide. Scosso dall’accaduto, non trovava le parole per comunicare la notizia al gruppo. Guardiola per la prima volta non ebbe il coraggio di guardare in faccia i suoi uomini. Furono i medici dello staff a intervenire, spiegando la situazione in cui versava Tito. Guardiola – come scrive Guillem Balaguè nella biografia – fu tradito dall’emozione. “Beveva velocemente e fissava il pavimento ascoltando in silenzio ciò che già sapeva”. Tito Vilanova si è arreso dopo tre lunghi anni, nell’aprile del 2014.
Un susseguirsi di successi, ma anche di rapporti tesi e storie senza feeling. Come quella con Zlatan Ibrahimovic, un amore mai sbocciato e precipitato nel corso della stagione. Guardiola aveva intrapreso un percorso con Messi falso nove, in occasione del clàsico al Bernabeu della stagione precedente (2008-2009), quando arrivò uno storico 6 a 2 per i catalani, a casa degli odiati rivali. Ibra era un pesce fuor d’acqua, una individualità lontana dallo spartito.
Nel tempo arrivò un faccia a faccia (privato), uno scontro verbale carico di ruggine: Zlatan era diventato un corpo estraneo all’interno dello spogliatoio. Guardiola e i “suoi uomini” nel mirino: Messi, Xavi, Iniesta divennero ben presto gli “scolaretti”, veri yes man del tecnico blaugrana. Fu proprio l’esplosione della Pulce in quel ruolo a sdoganare Ibra e fattualmente sancirne il divorzio. Lo svedese non riconosceva più Pep come il suo capo, Guardiola aveva scelto a chi affidare le chiavi del suo tridente e per Ibra non c’era più posto.
Alla voce relazioni complicate, chiedere lumi a Jose Mourinho. Che da tecnico merengues riuscì a dilatare la durata delle partite giocando su più tavoli e irritando il collega con attacchi mediatici senza fine. Il potere dello sponsor, (Unicef nel 2011) in grado di determinare – a suo dire – le dinamiche di una gara. E la lunga sequela dei “Por que” rivolti in sala stampa, a conclusione del quarto clàsico giocato nel raggio di venti giorni. Nelle strategie di Mou sono finiti dentro persino i raccattapalle e i giardinieri del Bernabeu.
Per disposizioni del boss: erba alta contro i catalani, per rallentare il flusso delle giocate e complicarli la vita più del dovuto. A dispetto dei tre centimetri del Camp Nou che favorivano una maggiore fluidità di palleggio.
Guardiola accusò il colpo e ammise di esserne uscito prosciugato dai confronti col Real. Per il clima pesante creatosi e gli strascichi dei post gara che assumevano contorni grotteschi. La notte era diventato un momento di studio, di rivisitazione delle gare, dovette persino ricorrere ai farmaci per ritrovare sonno e serenità smarrita. Inoltre, le condizioni all’interno del club erano cambiate: Rosell subentrò a Laporta in qualità di presidente. Pep, era un uomo di Laporta e, Rosell prima dell’addio, dichiarò: “Il Barcellona esisteva prima ed esisterà anche dopo Guardiola”. Il tecnico spagnolo aveva già deciso, voleva staccare la spina e riposarsi. Comunicò la sua scelta al club, era giunta davvero la fine del viaggio.
“Non rimanere mai più di quanto dovresti”
E’ stato uno dei primi consigli del suo mentore, Cruyff. L’uomo che ha lanciato Guardiola calciatore e sponsorizzato poi da allenatore all’interno del consiglio direttivo. Lo spagnolo ha esasperato, estremizzato i concetti dell’olandese creando una versione moderna del tiki taka. Guardiola non ha mai nascosto tutta la sua gratitudine nei confronti del Pelè bianco. Ed eccolo il certificato di stima più bello per il compianto olandese.
“Cruyff ha dipinto la cappella sistina, Rjikaard, Van Gaal ed io abbiamo solo aggiunto qualche pennellata”. (Pep Guardiola)
Tutti i virgolettati sono tratti dal libro “Pep Guardiola, un altro modo di vincere” di Guillem Balague.
di Mario Lorenzo Passiatore
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