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Albertini: "Euro 2000 dolore più grande. Sacchi? Mi ha trasformato da calciatore in giocatore di calcio" ESCLUSIVA

di Mario Lorenzo Passiatore

Foto di Elena Torre

Pubblicato il 03/01/2022

Un caffè (lungo) con Demetrio Albertini tra storie, aneddoti e curiosità. Abbiamo incontrato l’ex giocatore di Milan e Nazionale che si è concesso in una lunga intervista per Calcio Totale. Dall’oratorio a San Siro, fino all’esperienza da dirigente cominciata ai Mondiali del 2006

Il Milan, la Nazionale, il Barcellona e le esperienze di una vita quasi sempre a rincorrere un pallone. Sin dalla tenera età in oratorio, dove l’educazione e il rispetto venivano prima di un tiro o di un cross fatto bene. Cresciuto in una famiglia dove la cultura del lavoro contava più di ogni altra cosa. Papà Albertini, la mattina faceva il muratore e il pomeriggio allenava i ragazzini. Il sogno tra mille speranze era quello di calcare un giorno il prato di San Siro. Alla fine, il talento di Demetrio ha superato i desideri: dall’esordio con Arrigo Sacchi, alla consacrazione con Fabio Capello. Dal Mondiale accarezzato a Usa 94, a undici metri dalla quasi impresa di Pasadena. Fino a un’altra (quasi) gioia a Euro 2000, smorzata dal Golden Gol di un giovane David Trezeguet. Con il Milan ha vinto e rivinto tutto: 5 scudetti, 3 Coppe Campioni e 2 Intercontinentali. Quindi, l’esperienza da dirigente in Nazionale che gli ha restituito la gioia mondiale nella notte di Berlino, proprio contro la Francia.

Sei cresciuto in oratorio, il punto d’incontro era la parrocchia di Villa Raverio, uscivi dall’asilo e insieme a tuo fratello andavi a giocare. Siamo appena all’inizio ed è già bello così.

“La mia è stata un’infanzia felice. L’oratorio era tutto, era il mio San Siro. Poi dopo sono arrivato a giocarci davvero. Ma ogni cosa era un buon pretesto per tirare due calci al pallone: le strade, i cancelli, le saracinesche, i sentieri”.

Vieni da una famiglia umile con una grande cultura del lavoro. Tuo papà faceva il muratore e nel tempo libero allenava i ragazzini. Albertini come ci arriva al Milan?

“Le famiglie umili non sono diverse dalle altre, sono cresciuto con l’affetto di tutti. Quando cresci così, anche i bambini desiderano quello che possono e io volevo giocare a calcio. Ho iniziato in oratorio perché era il luogo più naturale. Un giorno, avevo dieci anni, tornai da scuola e mio papà mi portò a fare il provino al Seregno, dopo quattro mesi ero al Milan. Un sogno.

15 gennaio 1989, fai il tuo esordio in A con il Milan a 17 anni, a lanciarti è Arrigo Sacchi. ‘88-89 e ‘89-90 arrivano due Coppe Campioni sotto la guida del profeta di Fusignano. Recentemente abbiamo fatto una chiacchierata con Filippo Galli e ci ha detto: “Con Arrigo è cambiato l’approccio. Si è passati a un’idea di dominio, di comandare il gioco attraverso il controllo degli spazi”. Ci racconti il Sacchi allenatore?

“Arrigo è stato un innovatore. Ha dato consapevolezza delle fortune che poteva avere il calciatore. Grazie alle sue maniere maniacali ha portato una cultura del lavoro che prima non c’era, invertendo un trend sportivo non felicissimo. C’è stato un pre-Sacchi e un post-Sacchi nel calcio italiano. Quando si fanno le rivoluzioni in quel momento non si capiscono, poi si apprezza tutto più avanti, negli anni. Lo sento spesso ancora oggi e mi dice che sono l’unico calciatore ad aver lavorato anche dopo di lui. Crede talmente tanto in quello che sta facendo che si dedica anima e corpo, qualche volta anche esageratamente e bisogna frenarlo. E questo è stato il suo pregio e anche il suo difetto, perché l’ha portato a fare qualcosa fuori dal normale facendolo diventare un credo totalitario. Non mi stupisco del fatto che ancora oggi dorma poco”.

Il tuo processo di crescita passa inevitabilmente dall’esperienza al Milan con Fabio Capello. Un altro grande allenatore che ha continuato a vincere. Quali sono le differenze che hai riscontrato con chi lo ha preceduto?

“Sacchi mi ha trasformato da calciatore a giocatore di calcio. Il calciatore è quello che calcia bene la palla, il giocatore di calcio è quello che si mette in un contesto e sa cosa fare. Capello è l'allenatore che mi ha dato l’opportunità di mettermi in mostra. E’ venuto a vedermi a Padova dove ero in prestito e alla fine mi ha riportato a casa facendomi fare il titolare. A 20 anni, in quel Milan, non era così semplice.

Hai un aneddoto che ti lega particolarmente a Capello?

“Quando ero in prestito, il mister venne a vedermi e chiese di me a Colautti, che era l’allenatore del Padova: ‘Guarda Fabio, non è ancora pronto per il Milan’. Lì Capello capii che ero pronto, Colautti voleva tenermi un altro anno con lui”.

Che rapporto avevi con Silvio Berlusconi e qual è stato il suo più grande pregio nella gestione del club?

“Con il presidente avevo un legame diretto. Diceva a tutti: ‘Casa mia è sempre aperta’. L’ho vissuto in diverse fasi della mia carriera: da ragazzino a senatore. Ha sempre avuto parole da conquistatore, mantenendo un certo equilibrio. Con lui è cambiato il modo di gestire le cose, da Fininvest sono arrivati grandi dirigenti, hanno iniziato a gestire i giocatori come dei manager. Si cominciò a ragionare da azienda, con i premi a raggiungimento di obiettivi. Non a vittorie, ma ad alzata di trofei. Il Milan è stato uno dei primi club a fare questo. Berlusconi ha trasformato quello che sembrava utopia in realtà. In uno dei primi discorsi ha detto: ‘Voglio che il Milan diventi la squadra più forte del Mondo’. L’ha detto quando si faceva fatica a qualificarsi per l’Uefa. Quel tipo di pensiero ha contagiato tutti e ha avuto ragione negli anni”.

Van Basten, Gullit, Rijkaard, ma anche Baresi, Costacurta, Maldini, Tassotti, Ancelotti, Donadoni. Era il Milan degli olandesi, ma è stato anche e soprattutto il Milan degli italiani. E’ una cosa che spesso passa in secondo piano.

“I tre olandesi hanno segnato la storia del club, erano tre fuoriclasse. Ma per vincere gli scudetti e farlo per tanti anni devi avere una base solida di italiani. E non solo, noi eravamo 14-15 giocatori di Milano, cresciuti nel settore giovanile. C’era un senso di appartenenza incredibile. Dopo sono andati via i tre olandesi, sono arrivati altri stranieri, eppure si è continuato a vincere. C’era un’identità che si trasferiva anche a chi arrivava dopo”.

Qual è il giocatore più forte con cui hai giocato?                                                      

“Marco Van Basten. E ti dico che in quei Milan era difficile scegliere. Lo dico perché ha smesso a 28 anni e quello che ha fatto in così poco tempo è incredibile. Ha anticipato di 15 anni il giocatore moderno. Aveva delle doti innate: abbinava l’eleganza a una forza fisica incredibile. Aveva i piedi del fantasista, la struttura del centravanti e il fiuto del gol di un bomber alla Inzaghi”.

Il genio di Savicevic o quello di Zvone Boban?

“Savicevic a volte le vinceva da solo e in alcune partite si assentava completamente, era uno che rischiava veramente tanto. Era davvero genio e sregolatezza. Zvone, invece, è stato un centrocampista moderno. Aveva la classe e la qualità di un fantasista, ma quando c’era da fare il soldato faceva il soldato. Abbinava la qualità alla quantità”.

A gennaio 2005, approdi al Barça di Frank Rijkaard. C’era già un giovanissimo Leo Messi. Era soprattutto il Barcellona di Ronaldinho, Eto’o, Giuly, Iniesta. Che esperienza è stata?

“Ho giocato sei mesi, nonostante questo sono molto legato. Al Barça si fecero male tre centrocampisti centrali e cercavano una riserva che sapesse fare anche il titolare. Frank Rijkaard mi conosceva e mi chiamò: a 34-35 anni era una delle ultime chance. Ho giocato poco, ma ho costruito tanto dal punto di vista affettivo e umano. Sento ancora tanta gente oggi”.

Capitolo Nazionale. Per come sono maturate, brucia di più la finale mondiale di Pasadena persa a Usa 94 con il Brasile, oppure Euro 2000 contro la Francia? A quale ti sei sentito più vicino?

“Ero vicino a tutte e due e le ho perse in un modo strano. Però la delusione più grande della mia carriera resta Euro 2000, perché l’ho vissuta da senatore. La cosa più assurda per noi è che il pareggio della Francia ci sembrò subito una sconfitta. La delusione era talmente grossa che noi l’abbiamo persa al pareggio, non al Golden Gol. Invece, se ci pensi, riparti e te la giochi. Potevamo tranquillamente fare la doccia già al termine dei 90 minuti”.

Mondiali 2002, l’infortunio al tendine d’achille ti ha impedito di partecipare alla fase finale del mondiale nippo-coreano. Cosa hai pensato in quel momento? Cercavi forse una rivincita personale con la maglia azzurra.

“Prime del Mondiale del 98 avevo rotto il tendine dell’adduttore e per tre mesi mi sono allenato con gli antinfiammatori tutti giorni. Sono arrivato che non ero nelle condizioni migliori e si è visto. Nel 2002 rompo il tendine d’achille a un mese del mondiale, quando sapevo di essere titolare. Sono cose che succedono purtroppo, ma la delusione fu enorme”.

Il Mondiali del 2006 l’hai vissuto nelle vesti di dirigente. Te la sei goduta appieno o avresti preferito vincerlo da giocatore?

“Da dirigente ho vinto le tre medaglie: oro nel 2006, argento a Euro 2012, bronzo nel 2013 alla Confederations. Da giocatore tante volte è venuta meno la fortuna, perché perdere un Mondiale ai rigori e un europeo al Golden Gol non è proprio il massimo. Il Mondiale da dirigente è stata una bella avventura, forse non ero ancora pronto e maturo per quel ruolo”.

Due aneddoti della spedizione azzurra ai Mondiali del 2006.

“Dopo la semifinale contro la Germania sono passato dagli spogliatoi per dire ai giocatori: ‘Se volevate sapere cosa si provava ad arrivare in una finale mondiale, ve lo potevo raccontare io. Adesso, però, raccontatemi voi cosa vuol dire vincerlo’.E poi, il giorno dopo la nostra partita giocava la Francia, quando abbiamo visto che sono andati in finale ci siamo guardati con il segretario e abbiamo detto: ‘No, di nuovo loro’. Visti i miei trascorsi da calciatore contro la Francia, ho pensato che non fosse un bel segnale. E invece poi è finita come tutti sappiamo”.

Attualità, Andrea Pirlo alla Juve. E’ un azzardo, una scommessa o una scelta ponderata?

“Andrea ha accettato con coraggio. Sicuramente nella sua testa non c’era un percorso così immediato, ma uno come lui è abituato a prendersi le responsabilità. Dall’altra parte c’è la Juve, che ha dei dirigenti molto preparati e hanno un disegno più ampio rispetto a chi vive la società dall’esterno. Mi immagino dei cambiamenti in termini di organico con il supporto di Andrea. Poi è naturale che va aiutato dalla società e dai giocatori, perché non ha l’esperienza per poter essere una certezza, ma ha le potenzialità per affrontare la sfida. Perché si tratta di una sfida”.

Hai mai pensato di fare l’allenatore?                           

“Il percorso più naturale per un giocatore è fare l’allenatore. Non tutti i grandi giocatori diventano grandi allenatori perché devi maturare nel tempo altre competenze. La mia scelta va anche contestualizzata: marzo 2006 faccio la mia partita d’addio, maggio 2006 mi chiamano per fare il dirigente in Nazionale. In quel momento sentivo di farlo e ho iniziato un percorso diverso”.

Chiudiamo con due cartoline. La tua stagione più bella e il momento che ti ha regalato l’emozione più forte.

Il 94 è stato un anno straordinario. Campionato, Champions, e secondo al Mondiale. Se devo indicarti un momento ti dico la mia partita d’addio. Tanti giocatori hanno preso l’areo per giocare e poi sono ripartiti subito dopo. C’erano otto palloni d’oro in campo, due squadre che hanno segnato la storia degli ultimi anni. Il Milan degli anni 90 e il Barcellona. Ancora oggi, ripensandoci resta un’emozione unica”.

di Mario Lorenzo Passiatore

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