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F. Galli: "Vi racconto il mio Milan. Sacchi, Liedholm e Capello" ESCLUSIVA

di Claudio Ruggieri

Pubblicato il 03/01/2022

A tu per tu con Filippo Galli che si è raccontato a 360° nell'intervista esclusiva di Calcio Totale, all'interno della rubrica Viaggi Amarcord. Storie e aneddoti del suo Milan che ha segnato un'epoca

L’arrivo di Arrigo Sacchi al Milan ha sicuramente cambiato lo scenario non solo della società rossonera ma anche del calcio italiano. Nel nostro viaggio “amarcord” abbiamo deciso di approfondire il Milan di Sacchi con uno dei pilastri dell’allora difesa rossonera, ovvero Filippo Galli. Dagli inizi della carriera alla finale contro il Barcellona in cui praticamente annullò Romario. 

Ecco la nostra intervista esclusiva.

Come è iniziata la carriera di Filippo Galli?

Non ho mai avuto l’idea di fare il professionista, mi allenavo con piacere senza pensare tanto al dopo. Cominciai a lavorare con papà che aveva una piccola attività. Quando mi scelse il Milan avevo appena cominciato ad andare alle scuole serali, poi quest’opportunità mi permise di giocare in un settore giovanile professionistico, di fare la maturità e di andare a provare a Pescara. Dissi a mio papà che volevo provarci e che anch’io avrei portato a casa un contratto. L’obiettivo era non deludere i miei genitori e devo dire che alla fine è andata abbastanza bene”.

Come è cambiato il calcio dopo Arrigo Sacchi?

E’ cambiato l’approccio. Si è passati a un’idea di dominio, di comandare il gioco attraverso il controllo degli spazi. Indirizzare la squadra avversaria verso determinate zone di campo per poi effettuare un pressing organizzato. Aiutato dal fatto che prima non c’era la differenza tra fuorigioco passivo e attivo. L’idea era di comandare il gioco sia in casa che in trasferta. Poi è arrivato il “Sacchismo” che non comprese fino in fondo le innovazioni di Sacchi.Quello che oggi si chiama Tika-Taka, anche Guardiola non vuole che si chiami così, senza la comprensione dei principi diventa un pasticcio. Un gioco stantio, orizzontale, ma anche lì è una distorsione della vera idea di Guardiola”.

Liedholm è stato il tuo primo allenatore in rossonero…

“E’ quello che portò la marcatura a zona. Anche se poi quando incontravamo una squadra con il numero 10 mi faceva spesso marcare a uomo. Lui diceva: ‘Se noi perdiamo Filippo Galli non ha molta importanza, ma se riusciamo ad annullare gente come Platini, Maradona, Matteoli, loro hanno sicuramente uno svantaggio maggiore’. Liedholm ci aiutò a pensare un certo tipo di calcio, anche se la sua zona, passatemi il termine, era piuttosto statica rispetto a quella di Sacchi che era più elastica e prevedeva delle letture diverse”.

A proposito di allenatori, che ci puoi dire su Capello?

“L’ho avuto anche nel settore giovanile. Ha fatto un percorso manageriale che lo aiutò dopo nella gestione delle risorse umane. Il fatto di essere stato un ex giocatore può averlo aiutato. Ha saputo rigenerare un po’ di giocatori che avevano perso gli stimoli. Dal punto di vista del campo toccò poco, forse tolse agli attaccanti gli obblighi difensivi, permettendo maggiore libertà in attacco. E con la sua guida arrivarono altri successi”.

Hai avuto tanti compagni di squadra di grande livello, ci dici qualcosa su Van Basten… 

“Giocatore incredibile. Elegante, efficace, una capacità di movimento uniche. L’infortunio ne ha rallentato e poi bloccato la carriera”.

Galli, Van Basten e un aneddoto particolare…

“Durante un allenamento a pressione di Sacchi, era un quattro contro quattro dove chi non aveva la palla doveva aggredire subito il portare. Van Basten probabilmente era stanco di fronte alle continue richieste di Arrigo, ed entrò in maniera scomposta sul mio collaterale interno e ancora oggi ho una placca che mi tiene fermo il legamento. Sono cose che possono succedere, fa parte del mestiere”.

Accanto a te in difesa c’è stato un grande del calcio italiano, Franco Baresi. Che giocatore era il capitano?

“Baresi rimane Il Capitano. Quello che trascinava la squadra nei momenti di difficoltà. E’ il più forte con cui io abbia giocato. Le letture delle situazioni di gioco diventarono univoche, con lui in campo si leggeva tutti allo stesso modo. Andavo a vederlo nell’anno dello scudetto, quello della stella, e poi mi sono ritrovato al suo fianco. Un sogno che diventa realtà”.

Se facciamo il nome di Savicevic cosa ti viene in mente?

“Al di là del gol aveva un’efficacia tecnica imprevedibile. Sembrava che stesse cadendo in determinate circostante però poi riusciva sempre a tirar fuori la giocata. E’ vero che quella squadra aveva Boban, Desailly, Donadoni, ma lui ti dava sempre quella soluzione diversa e non contemplata”.

Grandi compagni di squadra ma anche enormi campioni come avversari. Il più forte?

“Diego Armando Maradona. Era un problema, ma anche un onore marcarlo. E’ un sogno per tutti misurarsi con gente come lui, Platini, Zico. Quando in Italia aprirono le frontiere c’erano i migliori e il più bravo di tutti era proprio Diego”.

Forse la più bella partita della tua carriera è stata quel Milan-Barcellona. Romario non toccò palla. 

“Noi eravamo carichi per giocare quella finale. Certo, le dichiarazioni di Cruijff ci diedero qualche stimolo più. Giocai io centrale (Franco era squalificato) insieme a Maldini, Panucci a destra e a sinistra Tassotti. Non potevo sbagliarla quella gara”.

Vedendo i difensori di oggi in Italia: chi è il più talentuoso?

“Mi piacciono i difensori che partecipano attivamente al gioco. Come quelli del Sassuolo a cui De Zerbi chiede un impegno cognitivo costante. Ci sono chiaramente i mostri sacri che tutti conosciamo. Tra i giovani mi piace Bastoni dell’Inter e spero che Matteo Gabbia del Milan possa dare continuità alla sua crescita. Oggi ai difensori centrali viene chiesto molto di più di quello che veniva richiesto un tempo”.

L’ultima domanda è sul settore giovanile dove tu hai avuto modo di lavorare. Quanto è importante per una società?

“E’ la risorsa più importante, o almeno così dovrebbe essere. I bilanci delle società sono in difficoltà e le voci di costo sono legate principalmente all’acquisizione di calciatori e ai loro contratti. Quando invece un ragazzo cresce nel settore giovanile la cifra è piuttosto bassa e viene ammortizzata velocemente. Dal punto di vista prettamente aziendale dovrebbe essere questa la direzione. In Italia facciamo fatica, perché non riusciamo a dare continuità alla formazione dei giocatori”.

di Claudio Ruggieri

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