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Cosmi: “Gaucci, il mio primo Perugia e quella volta che cambiai le mutande in panchina” ESCLUSIVA

di Mario Lorenzo Passiatore

Pubblicato il 03/01/2022

A tutto Perugia. L’intervista esclusiva del tecnico umbro durante la diretta Instagram di Calcio Totale, all’interno della rubrica Viaggi Amarcord. Il rapporto con Luciano Gaucci, i riti scaramantici, le vittorie più belle e gli aneddoti che hanno segnato la sua vita sportiva. Da Ahn a Ma Mingyu: il giocatore cinese acquistato per errore!

Chiamatelo Serse. Schietto e senza peli sulla lingua, cresciuto a pane e Perugia col sogno di sedersi un giorno su quella panchina. La passione era di papà Antonio tramandata ben presto al piccolo Cosmi, dove le vibrazioni dello stadio si mischiavano con quelle del cuore.

Una vita a forti tinte biancorosse: dalla gradinata alla panchina, il tempo di farsi le ossa e prendersi ciò che aveva da sempre cullato. “Immaginate un ragazzo, tifoso del Perugia che frequentava la curva. Ero innamorato della squadra perché mio papà era tifoso del Grifo e mi portava allo stadio. E’ una sensazione che vorrei provassero tutti”.

Scaramantico, almeno a inizio carriera, al punto tale da cambiare un indumento intimo prima di ogni partita: calzini, mutande o maglia della salute. Era un rito da rispettare e guai a saltarlo perché si rischiava di compromettere l’andamento delle gare.

Era Pontevecchio-Faenza e perdevamo 1 a 0. Mia moglie dimenticò l’indumento intimo perché era cambiata l’ora e il match era iniziato già da trenta minuti. Avrei dovuto cambiare le mutande. Il massaggiatore andò a prenderle dalla rete. Nessuno pensava potessi indossarle subito, in realtà perdevamo e io volevo fare in fretta. Si misero intorno un po’ di persone e le cambiai in panchina. Dopo dieci minuti pareggiammo”.

Nell’estate del 2000, a bussare alla porta è proprio il suo Perugia. E alla donna dei sogni è impossibile dire di no. Un’avventura tutta d’un fiato vissuta senza freni inibitori per quattro stagioni e con la solita verve da uomo a tutto campo. Il 3-5-2 è il suo dogma, fatto di ritmo e calcio verticale per sfruttare al massimo l’ampiezza degli esterni. Sono tante le partite che restano nella memoria, due più di tutte, per come maturate.

Sicuramente il 4 a 1 contro l’Inter di Cuper, che in quel momento era prima in classifica. I primi due gol furono molto discutibili: quello di mano di Vryzas che nessuno di noi aveva visto. Erano tre mesi che Zisis non segnava. Fu una partita straordinaria. Ma anche contro il Milan di Ancelotti, con un super gol di Miccoli che in quella stagione ci regalò nove-dieci perle. In casa vincemmo con tutte le big: Milan, Inter, Roma ed eliminammo la Juve ai quarti di Coppa Italia”.

Sono tanti gli aneddoti che hanno accompagnato la storia umana e sportiva di Cosmi nella sua prima avventura col Grifo. Soprattutto il primo anno quando lo scetticismo della gente diventò uno slogan di protesta. “Vidi subito lo striscione: ‘Ahn, Ma, Boh?’ Scoppiai ridere, perché nessuna credeva in quegli acquisti. In realtà, si faceva tanto scouting in giro per il Mondo ed eravamo attenti a scovare nuovi talenti all’estero”.

Il rapporto simbiotico con Luciano Gaucci, personaggio istrionico che veniva dal mondo dell’ippica ma sapeva già come muoversi in quello del calcio. Fatto di scommesse, di acquisti dell’altro mondo e mosse politiche e di marketing. Da Nakata a Rezaei, da Gheddafi (una presenza contro la Juve) al sudcoreano Ahn. Proprio quest’ultimo venne silurato subito dopo il gol contro l’Italia ai mondiali Nippocoreani del 2002.

Ma a sentire Cosmi, non si trattò di vero licenziamento. “Luciano era un grande cavalcatore di situazioni emotive. Quella di Ahn, lo possiamo dire, è stato un finto licenziamento. Sapeva che dopo i due anni non poteva rimanere a Perugia, non aveva ancora pagato la rata al club coreano dove era stato acquistato. Ha sfruttato l’episodio del gol contro l’Italia per cederlo in Giappone e guadagnarci qualche milione in più rispetto ai soldi che avrebbe dovuto dare ai coreani”.

Il più grande equivoco della sua avventura a Perugia fu Ma Mingyu, il calciatore cinese prelevato per un miliardo di lire che non debuttò mai in serie A. I compagni di squadra lo ribattezzarono “Nonno” perché dimostrava più anni dell’età dichiarata. In realtà ci fu uno scambio di persona, i dirigenti del Perugia acquistarono il giocatore sbagliato. “Su Ma ci fu un errore. Quando andarono a vederlo, lui aveva il numero quattro ed era un nazionale. In realtà il giocatore visionato fu Li Tie che poi andò in Premier. Quando arrivò a Perugia noi eravamo convinti che Ma fosse Li Tie. Facemmo l’amichevole a Grosseto e lì mi vennero un po’ di dubbi. Giocatore discreto ma non quello che avevo visto. Alessandro Gaucci se ne accorse e mi disse sorridendo: ‘Mister, abbiamo sbagliato’. Sì, sbagliammo proprio giocatore. Quel Perugia era racchiuso in ‘quell’abbiamo’, perché tutti erano importanti, fino al magazziniere”.

Il presidente Gaucci era fortemente scaramantico e credeva nella numerologia. C’era un giocatore che non digeriva per colpa di quel numero, il 13 che, a suo dire, portava sfiga. Fino a sbottare in una trasmissione sportiva con tanto di nome e cognome: Roberto Baronio.

Me l’aveva detto mille volte di togliere il tredici a Baronio perché quel numero portava sfiga. Una volta vincevamo due a zero a Roma e giocava Baronio, alla fine ci rimontarono. Mi chiamò subito e il giorno dopo si presentò a Perugia, fece bruciare tutte e tre le maglie: la blu la verde e la biancorossa. Non voleva vedere più quel numero sulla maglia di Roberto. Baronio ha sofferto tanto per questa cosa, rimase fuori due partite. Poi, prima di giocare con la Reggina, mi chiamò e mi chiese in anteprima la formazione. In realtà non voleva sapere l’undici, lui voleva sapere se giocasse o meno Baronio. Così per assecondare la scaramanzia del presidente decidemmo di dividere l’1 dal 3 inserendo un segno più in mezzo.A fine gara mi chiamò Gaucci: ‘Mister, stavolta le devo fare i complimenti, ha azzeccato anche il risultato’. Purtroppo a Reggio perdemmo 3-1. Vi lascio immaginare gli insulti”.

Che giocatori al Renato Curi

Dellas, Vryzas, Materazzi e Grosso. Da Perugia e sotto la sua gestione sono passati due campioni d’Europa (con la Grecia nel 2004) e due campioni del Mondo con l’Italia nel 2006. “Tutti e quattro avevano una personalità fuori dal comune. Vryzas quando arrivò a Perugia non giocava nel Paok. Dellas non vedeva il campo da un anno e mezzo e abbiamo lavorato tanto prima che andasse alla Roma. Grosso veniva dal Chieti e faceva la mezzala. Si è dovuto prima inventare giocatore di Serie A e poi adattarsi in un ruolo che non aveva mai fatto. Materazzi realizzò 12 gol in un anno, un record che ce lo sentiamo tutti un po’ nostro. Doveva andare via l’anno prima e per nostra fortuna rimase una stagione in più, poi passò all’Inter e ha fatto quello che sappiamo tutti”.

Ma sul giocatore più forte che abbia mai allenato sembra davvero non aver dubbi. “Per potenzialità dico Fabian O’Neill, era un fuoriclasse straordinario. In nessuno ho visto le qualità di Fabian. Poi si è perso per tanti motivi. Invece quello che è in assoluto il più forte per quello che ha espresso con me e anche altrove, è stato Miccoli. Fabrizio realizzava le tue idee sul campo e in alcuni casi anche i sogni. Penso di essere stato un grande valorizzatore, mi sarebbe piaciuto essere un po’ più valorizzato”.

E poi c’erano i fedelissimi, quelli che ogni allenatore porterebbe con sé in ogni situazione, sempre e ovunque. I Baiocco, i Tedesco, ma due su tutti incarnavano le idee del tecnico nel rettangolo verde. “Ti dico Ze Maria perché era un giocatore unico. Era il nostro regista. Solitamente quel ruolo è del centrocampista centrale e noi avevamo già un grande interprete che era Liverani. Fabio leggeva il calcio. Ze Maria per capacità di interpretare le situazioni era un regista aggiunto spostato sulla fascia”.

Nell’ultima stagione al Renato Curi, quella che sancì la retrocessione in B degli umbri, Serse ha conosciuto gente del calibro di Hubner e Ravanelli. Attaccanti di un altro calcio che vedevano la porta davvero come pochi e vivevano lo spogliatoio in maniera del tutto singolare.

Dario era un highlander. Tra primo e secondo tempo usciva dallo spogliatoio con il mio secondo Mario Palazzi per fumare una Marlboro e poi si facevano mezzo bicchiere di grappa o qualcosa del genere. Mentre Ravanelli è il Perugia. Tante volte per il mio ritorno qui ho pensato a Fabrizio. Lui è tornato a Perugia dopo tanto tempo, parlava e faceva le stesse cose che facevo io. Quando nasci in una città, ce l’hai dentro, punto. Era uno che dava l’anima. Mi vien da ridere quando vedo i giocatori che perdono tempo durante le sostituzioni. Quando cambiavi Fabrizio era perché non aveva più grammo di quello che c’era da spendere. E poi, uno che fa gol in una finale di Champions, ho detto tutto”.

La storia di mister Cosmi si intreccia con Perugia per ovvie ragioni di cuore, ma in ogni piazza ha sempre dato e ricevuto un affetto smisurato dall’ambiente, dal tifo e dalla sua gente. L’uomo Serse vive della stessa sostanza sogni. “Ho bisogno di sentire la mia tifoseria in che maniera si rapporta con me. Che non è una qualità, è un grande limite. E quando avverto quel qualcosa in più riesco a dare di più”.

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